domenica 11 marzo 2012

Le relazioni pubbliche al femminile. Riflessioni post 8 marzo


Una delle discussioni più commentate su Linkedin nel gruppo Public Relations Professionals è quella sul tema “ Perché ci sono più donne che uomini nelle relazioni pubbliche”.


Rivolta a un pubblico internazionale, quindi nelle intenzioni di ampio respiro, ha una partecipazione quasi del tutto maschile, con solo una donna a commentare. Le argomentazioni non sono di particolare spessore né apportano nuovi contributi, ma dimostrano che l’argomento resta di attualità.


Al di là dei motivi per cui le relazioni pubbliche sono una professione in maggioranza femminile (qui, qui e qui alcuni dati) mi piace riportare alcuni commenti (non recentissimi ma sempre validi) che ho trovato in altre conversazioni per il web. A parlare sono donne, tutte con posizioni di responsabilità nelle relazioni pubbliche, oltre che molto impegnate nelle associazioni di categoria.


Le opinioni espresse sono da me condivise. Evidenziano criticità sulle quali c’è ancora da lavorare. Per esempio: una ricerca effettuata nel Nord-Est italiano evidenzia che il 77% di chi si occupa di relazioni pubbliche è donna ma solo il 46% sono le donne ai vertici aziendali.



Le ripropongo per stimolare ulteriori riflessioni e come punto di partenza per nuovi traguardi al femminile, non solo nelle relazioni pubbliche.


Maria Paola La Caria
, delegata Ferpi per il Triveneto: «Si tratta di un limite di noi donne, convinte di non avere tutte le doti per arrivare al vertice. C’è poi anche un problema di ritmi di vita se è vero che le decisioni più importanti in azienda si prendono dopo le sette di sera e a quell’ora le donne sono di solito a casa perchè hanno famiglia».


Per la La Caria le donne di successo nelle relazioni pubbliche riescono ad imporre un loro stile: «Spesso siamo noi stesse a sceglierci un ruolo meramente esecutivo, perché siamo brave a fare e perché pensiamo di essere “meno capaci” degli uomini a decidere. Le donne che ce l’hanno fatta hanno imposto un loro stile, diverso da quello maschile. Cercando costantemente condivisione, praticando le doti dell’ascolto e dell’accoglienza, senza farsi mettere i piedi in testa».

Fonte: Ferpi


Judy Gombita, canadese, consulente in relazioni pubbliche a Toronto e collaboratrice del blog PrConversations: “In linea di massima, penso che molte donne debbano solo rimproverare se stesse. Per esempio quando sul posto di lavoro parlano di sé e delle proprie college usando il termine “ragazze” , per riferirsi a delle donne adulte. Sono del parere che il linguaggio dia forma alla consapevolezza, almeno in parte. Ecco perché ogni volta che mi imbatto in qualcuno che mi definisce “ragazza” ho preso l’abitudine di affermare, velocemente e in maniera ferma, che sono una donna adulta, non una ragazza. Se sembro scorbutica, pazienza.


Le ragazze non diventano CEO e nemmeno vice-presidente. […]


Allo stesso modo, in fatto di conferenze ed eventi, particolarmente quelli legati alle relazioni pubbliche, alla comunicazione e ai social media, è necessario che le donne – che generalmente compongono il 50 % o più del pubblico – siano proattive nel pretendere di avere tra gli esperti invitati a parlare almeno altrettante donne quanti sono uomini e gli organizzatori devono impegnarsi per soddisfare queste richieste. Sono stanca della scusa che bisogna invitare i migliori a parlare indipendentemente dal fatto che siano uomini o donne e che non bisogna tenere conto delle quote rose. Perché é una scusa. Se si continua a fare come si è sempre fatto, le cose non cambieranno mai. O, perlomeno, cambieranno per il fatto che io non parteciperò né promuoverò questi eventi.


Recentemente ho avuto una discussione su Twitter con uomo piacevole e ragionevole, che continuava a riferirsi a una sua collaboratrice, che lui definiva in gamba, come di una “ragazza”. Alla fine viene fuori che la “ragazza” era una moglie e madre di famiglia, al che ho dovuto sottolineare che si trattava di una “donna adulta”. Quando mi ha risposto che anche a lui capitava talvolta di essere definito “giovane uomo” gli ho fatto notare che perlomeno il termine usato nei suo confronti era “uomo”, non “ragazzo”.


Fin qui Judy Gombita, a cui risponde Heather Yaxley, consulente e insegnate di relazioni pubbliche presso l’università di Bournemouth, in Gran Bretagna. Come Judy Gombita scrive su PrConversation: “ Judy – è interessante constatare che auspichi sia cambiamenti a livello individuale, personale, sia che sottolinei la necessità di cambiare il sistema. Sono d’accordo con te sul fatto che dobbiamo sia imparare a presentare noi stesse in modo adeguato sia cercare di modificare le cose nel contesto più generale.

All’inizio della mia carriera mi è stato detto che chi si comporta come una ragazzina sarà trattata come tale e il concetto vale per tutte coloro che adottano stili da “pierre coniglietta”. Mi ricordo di aver avuto un grosso problema con una donna membro dello staff (era una responsabile) in un’agenzia dove lavoravo, perché indossava sempre magliette attillate e gonne corte. Non dicevo niente perché mi sembrava di esagerare con le critiche nei suo confronti, ma alla fine è stato lo stesso cliente a chiedere al direttore che questa donna si vestisse in maniera più professionale.


Rifletto sul fatto che in televisione ci sono troppo poche presentatrici e mi chiedo se sia una questione di mancanza di autopromozione. Ho sempre pensato che le donne siano generalmente meno dirette degli uomini nel farsi avanti. Mi ricordo di aver sentito dire che gli uomini tendono a fare domanda per posti di lavoro che sono al di sopra delle loro competenze, mentre le donne fanno domanda per posizioni del loro livello.


Bisogna rifiutarsi di essere definite “ragazze” se si è professioniste qualificate e con ruoli di responsabilità. “


Fonte: PrConversations. Traduzione e rielaborazione dall’inglese dei commenti di Judy Gombita e Heather Yaxley a cura della sottoscritta, per i commenti originali cliccare qui e qui

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