giovedì 29 gennaio 2009

Fino a che punto deve essere creativo un sito internet ?  


Ho trovato di molto interesse le argomentazioni di Blographik e dei suoi numerosi commentatori, tutti web designer vogliosi di sbizzarirsi in creazioni originali, e tutti, in genere, incompresi dai clienti (le aziende).

Da un lato non si può non simpatizzare con il desiderio di sfrenare la propria creatività e il proprio talento e realizzare ogni volta siti-cammeo, condensati di originalità e di innovazioni tecniche. Piccoli capolavori da inserire in portfoli quasi fossero cataloghi di mostre d’arte.

Il webmastering come forma d’arte, e chi può negare che lo sia ?

Ma l’arte si scontra con la grigia realtà di tutti i giorni, quella delle aziende alle prese con budget, fatturati, clientele da accontentare, imprenditori che non capiscono i nuovi linguaggi del web, si lamentano i creativi, che quasi sarebbe meglio non lavorare per loro.

Si tratta di problematiche note a quasi tutti coloro che lavorano in azienda - con ruoli diversi - nella comunicazione, perché in esse ci si imbatte almeno per l’80 % del tempo.

Vorrei quindi provare a presentare il punto di vista delle aziende e spiegare perché non è possibile, quasi mai, realizzare siti aziendali che siano capolovarori di arte web del 21esimo secolo.

1.
L’imprenditore (o il responsabile della comunicazione) che commissiona la realizzazione di un sito a un web designer non desidera un’opera d’arte (a meno che ovviamente non si tratti del sito di un museo o cose del genere, ma forse neanche). Vuole un sito per comunicare determinati contenuti, che possono anche avere a che fare con la ferramenta, i laminati plastici, i semilavorati in legno e altre cose del genere molto poco artistiche, ma che sono i suoi prodotti e che deve vendere.

2.
La decisione di avere un sito fa parte di una strategia di comunicazione più generale, e il sito deve rispondere ai criteri di questa strategia. Il sito è una tattica, non è la strategia, e quindi alla strategia si deve adeguare.

3.
Per contro, tutto quello che non contribuisce a sviluppare la strategia è eliminato, perché complica la comprensione del messaggio che si vuole trasmettere, come un accessorio vistoso e ridondante che calamita lo sguardo impedendo di notare l’eleganza dell’insieme.

4.
Infine, ebbene sì, abbiamo anche problemi di budget. Sapete com’è, avevamo appena iniziato a renderci conto che spendere per la comunicazione si deve perché non è un costo ma un investimento che ci arriva tra capo e collo la crisi. E mentre cerchiamo di non tagliare gli investimenti in comunicazione, consapevoli del fatto che saranno proprio loro ad aiutare la ripresa, nel contempo cerchiamo di fare di più con meno.

E così i web designer fanno la fine degli stilisti di moda, che sulle passerelle presentano creazioni magnifiche quanto importabili, ma che nelle collezioni pret-à-porter devono inserire gli abiti che le clienti possano indossare facilmente. Gli stupendi abiti di Capucci sono protagonisti di mostre, ma non li vedrete mai addosso a qualcuna nella vita di tutti i giorni.

martedì 27 gennaio 2009

Le nuove relazioni con i media privilegiano i capaci e meritevoli  

Qui l’interessante analisi di Toni Muzi Falconi dello scenario prossimo venturo delle relazioni con i media, zoccolo duro della comunicazione aziendale, almeno fino a poco tempo fa.

Adesso invece sarebbero in calo di un 25 %, a causa della diminuzione delle inserzioni pubblicitarie, con tutta una serie di conseguenze sulle risorse a disposizione dei giornali e sui rapporti tra comunicatori e giornalisti.

Ma se è vero che ci sarà meno spazio a disposizione per pubblicare notizie dalle aziende, questo tipo di selezione privilegerà i più bravi, quelli che riescono a fare “più” notizia.

Che cosa vuol dire fare più notizia ? Non significa inondare le redazioni di comunicati stampa, né allargare il giro delle testate che si contattato, pensando che se una non pubblica lo farà l’altra, per la legge dei grandi numeri.

Più notizia vuol dire scegliere argomenti che possano essere di interesse pubblico. Non il lancio di un prodotto quindi, a meno che non sia palese il beneficio che tutti ne possono trarre, per esempio se si tratta di un farmaco nuovo. Ma il fatto che l’azienda tale ha deciso di ridurre le emissioni nocive, a garanzia del rispetto dei polmoni di tutti. Oppure che l’organizzazione talaltra ha messo in palio 5 borse di studio per gli studenti liceali più meritevoli. Eccetera. L’importante è che l’argomento sia di interesse per la gente – i lettori del giornale – e non solo dal punto di vista dell’azienda.

E qui viene il bello, perché quello che si racconta deve assolutamente essere vero. Pena la gogna. Quindi l’azienda deve ridurre le emissioni, se dice che lo appena fatto o che sta per farlo. E sarà compito del relatore pubblico, appresa l’esigenza della comunità di respirare meglio, di convincere la coalizione dominante a mettere in atto una politica ambientale che ottenga quel risultato.

Oppure più notizia può voler dire avere argomenti curiosi, insoliti. Storie che riguardano l’azienda e che possono colpire l’attenzione del lettore. Aneddoti, piccoli fatti che, se opportunamente presentati e magari un po’ conditi, possono far presa sul giornalista, spingendolo a volersene occupare. Qui la verità è meno importante, in fondo si tratta di articoli di colore, che non necessitano di essere veritieri al cento per cento.

Fare più notizia vuol dire anche scrivere meglio, prendersi il proprio tempo per confezionare un press release ben fatto, dato che non conta la frequenza, ma la qualità. Ecco, la qualità elevata sarà la chiave.


domenica 25 gennaio 2009

Ma Sasha e Malia sono dei bei nomi per delle bambole ?  


Malia e Sasha saranno forse dei bei nomi, anche se si sa, sui nomi de gustibus non disputandum.

Di sicuro non è questo il motivo che li ha fatti scegliere per le ultime due bambole della collezione TyGirlz, Marvelous Malia e Sweet Sasha, che in pochi giorni sono andate a ruba.

Ce lo vorrebbe invece far credere la portavoce della Ty, produttrice della bambole e creatrice della fortunata campagna di marketing tutta incentrata sull’idea di usare i nomi delle due bambine più famose d’America. Alle quali tra l’altro somigliano nei tratti somatici salienti abbastanza per essere a loro riconducibili.

Certo, da un lato l’arrabbiatura di Michelle Obama pare un filo eccessiva. Credo infatti che la bambine più che turbate ne siano state lusingate, come lo sarei stata io se da piccola il mio nome fosse stato scelto per un bambola (ma tant’è, mio padre non era il presidente degli USA e in più il nome non è altrettanto musicale).

Dall’altro, la Ty poteva gestire la cosa in maniera più elegante. Bastava ammettere la verità invece che negare l’evidenza (in fin dei conti anche le altre bambole della collezione non hanno mica nomi messi a caso, se si chiamano Paris, Britney, Hillary ecc.).

Non penso proprio che l'azienda sarebbe incorsa in sanzioni, e neanche in un calo di reputazione, cosa che magari rischia adesso per la figura sciocca che ha fatto, tentando di nascondersi dietro un dito.

Suggerisco, per riparare, di spedire subito due bambole alle piccole inquiline della Casa Bianca.

sabato 24 gennaio 2009

Non so che cosa fare nella vita, apro un’agenzia di pubbliche relazioni ?  




















Prima la vicenda allucinante capitata a Domenico Avolio (non ve la racconto, merita di essere letta), poi questo post dell’Imprenditore. C'è di che deprimersi, se uno lavora nelle relazioni pubbliche.

Con poche pennellate l’Imprenditore ritrae una realtà avvilente, fatta di tanti tentativi – mal riusciti – di sfruttare quella che si ritiene essere – talvolta a ragione, ma molto più spesso a torto - una gallina dalle uova d’oro.

Sedicenti uffici stampa dove non si sa nemmeno scrivere, ma solo spedire comunicati stampa-spam a migliaia di indirizzi e-mail acquistati a caro prezzo dalle società che assemblano database senza criterio alcuno.

Dilettanti li chiama l’Imprenditore, “improvvis-impostori” li definirei io, mi si passi il termine, che mi serve per descrivere una categoria fatta di gente con poca arte, poca parte e spesso pochi scrupoli.

Fiutando l’affare, mettono su in quattro e quattr’otto un ufficietto con un grafico-webmaster tuttofare e una segretaria per rispondere al telefono e anche per fare i mailing - che loro chiamano pomposamente e-mail marketing o marketing diretto - perché se fosse solo per rispondere al telefono basterebbe un numero di cellulare.

Il copywriter non serve perché tanto scrivere è facile e “due parole insieme le so mettere anch’io”. Va bene che il settore immobiliare (un altro dove accanto a gente seria ci sono tanti dell’ultima ora) ormai è saturo, ma non vi viene in mente proprio altro, se non sapete che cosa fare nella vita ?

venerdì 23 gennaio 2009

Gli abiti comunicano. Michelle Obama e i suoi stilisti  



Nel suo commento al mio post di due giorni fa, Iron Mauro esprimeva scetticismo riguardo alle possibilità di Isabel Toledo di mantenere il successo conquistato:

“Missione impossibile, se Michelle Obama non continuerà ad indossare i suoi vestiti...”

In realtà, la scelta di Michelle di indossare l'abito di una stilista ispano-americana nel giorno più importante potrebbe rappresentare una mossa ben precisa, riconducibile a un piano più ampio.

In precedenti occasioni di rilievo la first lady aveva scelto Narciso Rodriguez, un altro couturier non wasp, figlio di immigrati cubani.

Non per niente suo marito ha puntato molto sui contatti con le comunità dei latinos come serbatoio di voti.

Da notare che Michelle adora gli abiti di Thakoon Panichgul, che ha origini tailandesi.

L’impressione è che la moglie del neoeletto presidente degli Stati Uniti voglia sottolineare la svolta promessa anche con il proprio abbigliamento, diverso dallo stile sobrio e conservatore che contraddistingueva la sua predecessora Laura Bush.

E intanto si sprecano le scommesse su quale fashion designer sarà il fornitore ufficiale della prima dama della Casa Bianca per i prossimi quattro anni.

Chissà mai se vedremo mai la signora abbigliata da Donna Karan. E se succedesse, vorrebbe dire che la politica degli Stati Uniti sta tornando conservatrice ?

giovedì 22 gennaio 2009

Esperto di social media: chi era costui ?  



Ho letto con molto interesse il post su Six Pixels of Separation (riportato anche da Ferpi in una delle sue ultime newsletter) Who isn't a New Media Strategist ?

L’autore contesta la proliferazione in rete di sedicenti esperti in strategie di new media e social media, molti dei quali privi di garanzie sulle loro effettive competenze.

Se si mettono insieme i numerosi commenti che seguono il post originale, componendoli come le tessere di un puzzle, emerge un ritratto ideale di esperto e stratega di social e new media.

Queste le caratteristiche principali:

1.
Non siete esperti per il solo fatto di usare determinati strumenti. Piuttosto definitevi collaboratori.

2.
Avere un blog con molto seguito e ben posizionato nei motori di ricerca o con un elevato rank Technorati non testimonia del fatto che siete esperti.

3.
La differenza tra un blogger dilettante e un esperto di social media è che il secondo è in grado di orchestrare un’intera campagna pubblicitaria per creare interesse intorno a un prodotto preciso (es. un’automobile, un vino, ecc). Questa è la figura professionale che occorre a un’azienda il cui core business non sia di tipo digitale.

4.
L’esperto unisce conoscenza dei social media a esperienza di business e le coordina per raggiungere un risultato favorevole per l’azienda che l’ha ingaggiato.

5.
Il vero esperto ascolta e comprende le aziende per cui lavora e fa in modo che l’utilizzo dei social media diventi parte di una strategia di markeging globale. I social media sono lo strumento per realizzare questa strategia, non sono la strategia.

6.
Al pari di un coach che allena gli sportivi, l’esperto è in grado di motivare, ispirare, far crecere i talenti. Non si limita a essere bravo, riesce a far diventare competenti gli altri.

7.
Esperti si diventa provando, riprovando e sperimentando, per proporre ai clienti cose nuove e sempre migliori. Lo stratega ha paura di sbagliare e capita che sbagli, ma sa imparare dai suoi errori. La sua esperienza si crea sul campo, com’è logico che sia per degli strumenti che non si apprendono sui banchi di scuola e che domani potrebbero essere superati, sostituiti da altri che dovrà imparare a usare altrettanto in fretta.

8.
Gli ingenui che pensano di dare fumo negli occhi pubblicando post scritti male su argomenti stupidi e cercano di sfruttare il successo dei blogger affermati salendo sul loro carro, si riconoscono subito, anche se si definiscono esperti.

9.
I fatti parlano più delle parole, quindi preparatevi a dar prova del vostro valore con risultati tangibili.

10.
Siate presenti sui social media: se non ci siete si presumerà che non li sappiate usare. Imparate a costruire una presenza di spessore.

11.
Essere esperti di social media significa molto più che conoscere un insieme di tattiche, è una cultura che si comprende veramente solo partecipandovi.

12.
Un buon stratega non smette mai di imparare. Soprattutto osserva, osserva, osserva e trae ispirazione dappertutto.

13.
Un buon stratega crea la sua personale metodologia, che non è replicabile dagli altri.

14.
Quello che occorre per essere un professionista di successo dei new media è prima la capacità di fare progetti per conto un’azienda o un’organizzazione e poi di portarli a compimento.

15.
Nessuno può definirsi un esperto finché non esisteranno metodologie chiare e condivise su come misurare l’esperienza e i risultati. Bisognerà aspettare qualche anno perché ci arriviamo.

16.
Attenzione: non scrivete che siete esperti strateghi sul biglietto da visita, né su LinkedIn o su Twitter, neanche se lo siete davvero, altrimenti desterete sospetti rischiando di essere esclusi in partenza !

Che ve ne pare ? Personalmente sono abbastanza d’accordo con la maggior parte di questi punti, un po’ meno con l’ultimo. Secondo voi c’è qualche altra caratteristica che un esperto di social e new media dovrebbe avere ?

mercoledì 21 gennaio 2009

Non abbiamo l’addetto alle pubbliche relazioni  


"E pensare che non abbiamo neanche un addetto alle pubbliche relazioni".

La frase, riportata da Adnkronos, è di Isabel Toledo, stilista newyorkese fino a ieri semisconosciuta e oggi improvvisamente famosa per aver disegnato l’abito che Michelle Obama indossava il giorno dell’insediamento alla Casa Bianca.

L’autrice del completo giallo oro scelto (a sua insaputa) dalla first lady, ha espresso soddisfazione e meraviglia insieme.

Non se lo aspettava ha detto, anche perchè il suo atelier non ha neanche un addetto alle relazioni pubbliche.

A questo punto mi sembra utile fare qualche riflessione:

1.
Da questo momento dovrà procurarsene uno, e bravo anche, e possibilmente in fretta, se vorrà sfruttare pienamente il successo improvviso al quale, c’è da giurarci, non è del tutto preparata.

2.
La cosa non sarà particolarmente difficile. Al contrario, c’è da scommettere che non le mancheranno le proposte di addetti / agenzie di occuparsi della comunicazione del suo marchio. Più complicato invece sarà decidere a quali mani affidarsi.

3.
Non è vero che il successo arride solo a coloro che si mettono in mostra, qualche volta anche chi lavora seriamente senza farsi tanta pubblicità è premiato.

4.
Ho detto “qualche volta”, non ho detto sempre, quindi non pensate che gli addetti alle relazioni pubbliche siano così inutili che se ne possa sempre fare a meno.

5.
Chissà se il successo sarebbe arrivato prima, se avesse avuto un addetto alle relazioni pubbliche. In fondo, nel 2005, aveva già ricevuto un premio per la sua creatività, ma non l’aveva per così dire “monetizzato” dal punto di vista della fama.

6.
Chissà come mai pensava non le servisse un addetto alle relazioni pubbliche, pur lavorando a New York, dove per imporsi a certi livelli l’immagine conta un bel po’.

7.
Il difficile, per Isabel, viene adesso. Conquistata la notorietà in maniera inaspettata e improvvisa (anche se è brava, ma vedi punto 4), dovrà mantenersi sempre sugli stessi - altissimi - livelli. Missione impossibile, senza un addetto alle relazioni pubbliche.

martedì 20 gennaio 2009

Lanciare un nuovo succo di frutta ? Non è uno scherzo  

Dell’ultima discussione che anima la blogosfera vengo a sapere da Markingegno (ne parlano anche Mafe de Baggis, Enrico Sola, Gianluca Diegoli e chiedo scusa anticipatamente agli altri che non cito).
Tutto nasce da uno scherzo di Paul The Wine Guy.

Spacciandosi per l’intermediario del capo di una multinazionale, telefona a 10 blogger: ha 70.000 euro da spendere in una campagna pubblicitaria per lanciare un nuovo succo di frutta e nessuna idea. O meglio, un’ideuccia ce l’avrebbe anche: comprare dei post fasulli in cui gli autori magnificano il gusto della bevanda. La cosa non ha presa, in quanto i dieci contattati declinano.

Ora, posto che se qualcuno avesse accettato senza dichiarare per chi lavorava si sarebbe trattato di astroturfing, vietato da una direttiva europea recepita in Italia con il decreto legislativo n.146 del 2 agosto 2007, non mi interessa tanto commentare l’avvenimento dal punto di vista della correttezza e onestà dei blogger, quanto da quello dell’azienda.

Evidenziando quali valide alternative avrebbe a disposizione se non volesse ricorrere a pratiche sleali (oltre che stupide: ma che credibilità ha un blogger che ha sempre parlato di marketing, web 2.0, ecc. che improvvisamente si mette a parlare di succhi di frutta, minimo lo prendono per matto).

Prendiamo magari in considerazione una azienda medio-piccola, che non ha 70.000 euro da spendere in una campagna pubblicitaria (forse ne ha 7.000) e ha ancora meno tempo per fare scherzi.

Quale sarebbe il modo migliore di pubblicizzare un nuovo succo di frutta in modo che venga scelto dagli acquirenti, tra i tanti in vendita sugli scaffali dei supermercati ?
E quale sarebbe, in particolare, se si volessero sfruttare i social media, in aggiunta ai tradizionali canali della pubblicità above the line ?

Un’azienda particolarmente attenta a quello che succede nella blogosfera (un po’ una rarità, diciamolo, tra quelle di non grandi dimensioni) quasi sicuramente ha un sito internet che contiene un blog. Sul quale parla del lancio di questo nuovo succo di frutta, permettendo ai visitatori di commentare.

Nessun omaggio dato preventivamente (mancano i fondi per le spedizioni a domicilio e molti, tra l’altro, degustano e non si fanno più sentire) ma semplicemente la possibilità, a chi acquista il prodotto per libera scelta, di lasciare un parere sul blog. Possibilità reclamizzata inserendo nel packaging l’indirizzo del blog, con l’invito a visitarlo.

I commenti più interessanti saranno premiati con l’invio, questa volta sì, di una campionatura del succo di frutta preferito e magari di qualche altra novità della stessa azienda, a titolo promozionale.

Mettiamo anche che l’azienda monitori attentamente i siti in cui i consumatori esprimono pareri, come questo o questo - cosa che può fare anche se non ha un proprio blog – e intervenga chiedendo suggerimenti e stimolando l’espressione di ulteriori opinioni.

E mettiamo che faccia tesoro di queste informazioni per migliorare il prodotto e, magari, se ha un proprio blog, instauri un dialogo con i consumatori dei propri prodotti conquistandosene la fiducia, con una conversazione che prosegua in maniera intelligente e onesta, e chiarisca dubbi, dia spiegazioni e, perché no ? tolga curiosità.

sabato 10 gennaio 2009

Sito internet in inglese ? Attento alla variante linguistica  

Secondo un report di Seat Pagine Gialle di luglio 2008, il 61 % delle PMI italiane esporta, con un fatturato medio proveniente dall’estero del 37 %.

La maggior parte di queste aziende predilige internet come mezzo per promuovere la propria attività fuori dai confini nazionali.

Se ne deduce che avere un sito in inglese è obbligatorio.

Ma quale versione di inglese usare ?

Il “guru dell’usabilità” Jakob Nielsen, consiglia di scegliere una variante linguistica e usare sempre quella, evitando di saltare dall’una all’altra nello stesso contesto, per evitare un’impressione di sciatteria.

Poche e chiare le regole per i siti di paesi in cui l’inglese è la lingua locale, mentre il problema – Nielsen si rende conto – sorge quando il sito rappresenta l’azienda di un posto dove si parla un’altra lingua.

E’ il caso delle PMI italiane che devono usare un linguaggio internazionale per raggiungere una clientela più vasta.

Scartando l’ipotesi di principio secondo cui bisognerebbe creare una versione del sito per ogni variante linguistica utilizzata nelle zone in cui si hanno clienti, Nielsen consiglia di scegliere un’unica variante dopo avere effettato un’attenta riflessione.

Infatti, non solo pare che gli utenti di madre lingua inglese siano piuttosto permalosi riguardo alla scelta, ma questa incide anche sull’indicizzazione nei motori di ricerca.

Personalmente preferisco il British English, che mi sembra privo di connotazioni troppo locali, quindi adatto a un pubblico internazionale che usa l’inglese come seconda (o anche terza) lingua esclusivamente per farsi capire, senza necessità di provare quelle sensazioni di appartenenza a una community che provengono dal fatto di usare un comune linguaggio fortemente connotato.

Confesso che però sono di parte: ho imparato l’inglese in Inghilterra e sono piuttosto affezionata a questo paese, mentre non ho lo stesso feeling per l’American English, a causa di frequentazioni più brevi.

E voi quale pensate sia l’inglese più adatto ? Avete delle esperienze particolari in merito ?


mercoledì 7 gennaio 2009

Crisi economica e voci di corridoio in azienda: cosa fare quando il tarlo della sfiducia serpeggia  

Una delle conseguenze apparentemente meno serie, ma non per questo meno spiacevoli, della crisi economica sono le voci di corridoio che si diffondono tra i dipendenti di un’azienda circa il futuro della stessa.

Licenziamenti, cassa integrazione, downsizing e chiusure di cui sono zeppi i media fanno paura: basta un calo di produttività in un’azienda anche solida per propagare tra il personale informazioni incomplete e viziate, che alimentano un clima di sfiducia, fino a rischiare di danneggiare la reputazione dell'azienda all’esterno.

Le contromisure da mettere in atto al più presto prevedono una serie di azioni di comunicazione:

a) Scegliere un portavoce aziendale tra le alte gerarchie o qualcuno autorizzato a parlare a loro nome, percepito come una persona corretta, in grado di instaurare un rapporto di fiducia con chi riceve le informazioni.

b) Ammettere l’esistenza di voci di corridoio, negarle sarebbe controproducente.

c) Evitare atteggiamenti aggressivi con minacce di gravi provvedimenti contro chi ha messo in giro notizie non veritiere.

d) Evitare l’atteggiamento opposto di ignorare le voci di corridoio pensando che si smorzino da sole: lo faranno ma potrebbe essere troppo tardi.

e) Spiegare quanto c’è di vero e correggere tutte le informazioni errate fornendo la versione corretta dei fatti (che non è la versione ufficiale ma la verità).

f) Mantenere la comunicazione chiara e il più possibile completa: chi non sa cerca di sapere dalla fonte più disponibile, che non sempre è la più informata.

g) Fornire aggiornamenti periodici e non troppo distanziati nel tempo, in modo da soffocare sul nascere il proliferare di informazioni non vere.

h) Chiedere la collaborazione dei dipendenti nell’arginare le voci di corridoio. Sentendosi partecipi e apprezzati, saranno i primi a diffondere solo informazioni veritiere smentendo le informazioni false.

i) Se la situazione è confusa e non è ancora possibile sapere che cosa succederà, fornire ugualmente tutte le informazioni in proprio possesso, in modo che i dipendenti possano mantenere la fiducia e capire quali potrebbero essere le eventuali conseguenze sulla propria personale situazione lavorativa.

l) Non dimenticare di rendere noti gli altri dettagli non appena saranno definiti.

m) Se ci sono informazioni che devono restare riservate, comunicarlo onestamente.

n) Tenere presente che la strategia migliore è sempre la prevenzione, e che le voci di corridoio circolano più difficilmente nelle aziende in cui la comunicazione interna scorre fluida.

domenica 4 gennaio 2009

Quanto sei bravo nelle PR Online ? Metti alla prova le tue conoscenze con un test !  

All’inizio di ogni nuovo anno è doveroso fare un bilancio degli obiettivi che ci si era posti, per valutarne il raggiungimento, totale o parziale, per ripartire con una programmazione che riprenda quanto non conseguito e proponga nuove sfide per il tempo a venire.

La valutazione dovrebbe comprendere anche una riflessione sulle proprie capacità e conoscenze in materia. Sono fresche ? Sono aggiornate ? Il nostro settore, quello delle relazioni pubbliche, strettamente legato a internet, è tra quelli a più rapida evoluzione. E’ quindi importante tenere il passo con i continui cambiamenti, pena l’essere espulsi dal mercato.

E per cominciare bene l’anno, esorcizzando le prospettive nere che media e futurologi ci presentano, ecco un test per mettere alla prova le proprie conoscenze di web marketing e pr online.

Il Web Marketing Fun Test (Q & A on Web Marketing and Online PR) è proposto da NetPowerPr, richiede solo 10 minuti e, soprattutto, permette di testare le proprie conoscenze divertendosi.

Avanti, che cosa aspettate a provare ?