sabato 30 dicembre 2006

Il reality di Saddam impiccato 

Non trovo le parole per esprimere il disgusto che mi ha lasciato il sapere (io mi sono rifiutata di guardare) che i telegiornali italiani (e magari di chissà quanti altri paesi) hanno trasmesso le immagini dell’impiccagione di Saddam Hussein.
Una spettacolo inutile, incivile, indegno di tempi moderni, come quelli che stiamo vivendo pretenderebbero di essere.
Dopo le innumerevoli serie del Grande Fratello, fattorie e isole varie, ospitanti personaggi più o meno conosciuti o sconosciuti, possibile che l’ultima frontiera del reality sia quella di trasmettere un’esecuzione ?

A pochi giorni dall’inizio dell’Anno Europeo delle Pari Opportunità, licenziata una lavoratrice madre 

Mi riferisco al caso di Raffaella F., l’operaia della Faip di Vaiano Cremasco (Cremona) a cui l’azienda ha fatto trovare sotto l’albero di Natale un bel licenziamento a mo’ di pacco dono.
Come tutti sanno ormai (la notizia è della settimana scorsa), Raffaella è stata licenziata dopo una complessa e disperata trattativa in cui la donna ha tentato di tutto per salvarsi il posto di lavoro. Motivazione: aveva chiesto mezz’ora di flessibilità al suo orario per andare a prendere la figlia a scuola.
Nonostante la disponibilità della lavoratrice, divorziata e nell’impossibilità di affidare la bambina ad altri, di recuperare il tempo sottratto al lavoro o rinunciare alla parte di stipendio corrispondente, l’azienda ha preferito lasciarla a casa. La questione è finita in tribunale, dove sarà discussa il 9 gennaio.
In tempi in cui tante aziende si avvicinano alle tematiche della Responsabilità Sociale di Impresa, a cui si riconducono anche le uguali opportunità per le lavoratrici, e a pochi giorni dall’inizio di quello che è stato proclamato l’anno europeo delle pari opportunità, il comportamento dei dirigenti Faip, mentre sconvolge per la sua disumanità, non manca di stupire per l’ottusità e la mancanza di lungimiranza.

venerdì 29 dicembre 2006

Tamoil lascia la Juventus: l’autogoal dello sponsor 

Si è chiusa anzitempo (doveva scadere nel 2015) la collaborazione tra la società calcistica bianconera e l’azienda petrolifera Tamoil, il cui marchio compare attualmente sulle maglie dei giocatori.
Tamoil ha chiesto la rescissione del contratto di sponsorizzazione a seguito della retrocessione in serie B della squadra, avvalendosi di una clausola che lo consentiva.
Si interrompe così, prematuramente, un contratto che, nei dieci anni di validità previsti, doveva portare nelle casse juventine qualcosa come 240 milioni di euro. Per chi non avesse idea, specifichiamo che i contratti di Inter e Milan si aggirano intorno ai 10 milioni di euro a stagione.
Il marchio della Tamoil resterà sulle maglie della Juve fino alla conclusione del campionato in corso, poi scomparirà.
L’operazione, perfettamente corretta da un punto di vista formale e contrattuale, non appare tuttavia altrettanto azzeccata nella sostanza.
D’accordo che la Juve gioca quest’anno in serie B, ma c’erano almeno due motivi per cui la Tamoil avrebbe comunque avuto convenienza a continuare la collaborazione.
Il primo è che nessuno ha mai pensato che la Juve restasse in B per più di una stagione. Tanto è vero che, dopo un avvio non particolarmente brillante, la squadra ha infilato un successo dopo l’altro, divorandosi in un batter d’occhio i punti della pesantissima penalizzazione fino a raggiungere, prima della metà del campionato, la vetta della classifica.
Il secondo, che forse conta anche più del primo, è che il prestigio della società bianconera non appare intaccato più di tanto dal fatto di giocare in B, caso mai è la serie cadetta che ha tratto vantaggio da una presenza di tal sorta.
Quella che invece rischia di uscire piuttosto appannata da questa vicenda è l’immagine della Tamoil, che appare fiscale e poco sportiva, ben lontana dalla classe della vecchia signora. Un autogoal, insomma.

venerdì 22 dicembre 2006

L'entusiasmante 2006 della Guala Closures 

Ho appena terminato di redigere il post sull'importante riconoscimento ottenuto di recente da Guala Closures, il Private Equity Claudio Demattè, edizione 2006, che devo segnalare un'ulteriore iniziativa di comunicazione riguardante il Gruppo.

La multinazionale alessandrina, guidata da Marco Giovannini, Presidente e CEO, pubblica un'intera pagina su un giornale locale per porgere gli "Auguri di Buone Feste e un felice 2007" ai lettori.

Sotto agli auguri e a un natalizio ramo d'agrifoglio, un breve paragrafo dall'eloquente titolo "Fine d'anno entusiasmante per il Gruppo Guala Closures", come pare confermare l'ampio sorriso di Marco Giovannini nella grande foto a fianco, accompagnata dalla suggestiva didascalia “Da 50 anni Guala Closures dà sicurezza alle emozioni”.

Che il 2006 sia stato sul serio un anno di grandi soddisfazioni ce lo ricorda la stessa Guala Closures nel testo del messaggio, che ricorda "la recente acquisizione di Auscap, il più grande produttore di chiusure in alluminio australiano, che le consente di far crescere a 23 il numero dei propri stabilimenti operanti nel mondo."

Nel messaggio si ricordano inoltre i riconoscimenti ricevuti dal Gruppo Guala Closures nel corso dell’anno che sta per finire: oltre al prestigioso Demattè (categoria IPO), i due riconoscimenti ottenuti al Metal Packanging Manufacturers Association Awards, nel Regno Unito, oltre al premio WorldStar per la WAK, un’innovativa chiusura in alluminio per il vino.

La scelta di trasmettere il proprio messaggio di auguri tramite un giornale locale sottolinea le forti radici alessandrine di questa multinazionale che guarda lontano, ma che ha scelto di condividere i propri successi innanzitutto con la comunità in cui è inserita.

A Guala Closures il Premio Speciale IPO 2006 del Private Equity 

Prima la quotazione in borsa nel segmento STAR di Borsa Italiana SpA nel novembre 2005 poi, un anno dopo, il conseguimento del Premio Claudio Demattè Private Equity of the year 2006 (terza edizione), categoria IPO.

Promossa da AIFI e Enrst & Young, in collaborazione con Il Mondo, Il sole 24 Ore ed SDA Bocconi, e patrocinata da Borsa Italiana SpA, l’iniziativa è culminata in una cerimonia di premiazione svoltasi il 14 dicembre a Milano presso il Palazzo Mezzanotte di Borsa Italiana.

Per Guala Closures, la multinazionale radicata sul territorio alessandrino, un prestigioso riconoscimento al lavoro svolto nell’ultimo anno, che ha portato il titolo a un incremento del 7,38 % rispetto al prezzo del primo collocamento.

L’operazione è stata condotta da Investitori Associati SGR, l’investitore di private equity che aveva acquisito il 55,5 % della Guala Closures, e il cui disinvestimento è avvenuto mediante la collocazione in borsa dell’azienda alessandrina.

La multinazionale è quotata nel segmento STAR (Segmento Titoli con Alti Requisiti), riservato alle società di dimensioni medie in grado di soddisfare requisiti di tipo finanziario (alta liquidità dei titoli), organizzativo (la gestione dell’azienda deve essere allineata ai migliori standard internazionali) e comunicativi.

Questi ultimi comprendono una forte vocazione comunicativa nonché una elevata trasparenza nella comunicazione. Le aziende che aderiscono sono tenute tra l’altro a nominare un Investor relation manager, a rendere disponibile le relazioni trimestrali entro 45 giorni, e a pubblicare nel sito internet aziendale di tutte le informazioni societarie disponibile in italiano e in inglese.

venerdì 15 dicembre 2006

Quando il gadget è una pistola 

L’idea di indurre il consumatore all’acquisto di un determinato prodotto offrendogli come valore aggiunto un gadget è tutt’altro che nuova. La applicano da tempo quotidiani e riviste, spesso venduti con oggetti disparati di maggiore o minore utilità. Raccolte a punti e cataloghi premi spopolano nei supermercati e nei grandi magazzini, mentre le aziende mettono in palio, per i venditori che raggiungono un determinato fatturato, viaggi all’estero e oggetti di lusso.
Ma all’agente immobiliare americana Julie Hupton, di Houston, nel Texas, la vacanza esotica o l’ultimo modello di cellulare sono sembrati banali. Lei ha voluto stupire. Offrendo, a tutti i clienti che avessero acquistato una casa del valore di almeno 150.000 dollari, una pistola. Per pubblicizzare l’iniziativa ha pubblicato un annuncio su una rivista di settore – quello delle armi, non quello immobiliare. Una precisa scelta di target. Un messaggio rivolto in primis non a chi cerca casa ma a chi ha familiarità con le armi. E anche un modo per dire: comprate una casa e potrete difenderla dai malintenzionati. Un richiamo esplicito alla possibilità di poter subire aggressioni nella propria abitazione, di doversi trovare nella necessità di sparare, di dover usare quell’”accessorio” che la lungimirante agente immobiliare ti ha regalato.
Con 250 milioni di armi in mano ai privati cittadini, gli Stati Uniti (300 milioni di abitanti) sono il paese con il più elevato tasso di armi pro capite, e con la più alta percentuale di morti violente all’anno.
E’ ancora viva l’eco dell’eccidio alla Columbine High School di Denver (del 1999), mentre si è consumata da poco un’altra strage in una scuola, nella Pennsylvania dei pacifici Amish.
Eppure sciagurate iniziative come questa non fanno che aumentare l’idea che avere un’arma sia un fatto normale, come possedere un’automobile o un cellulare, e sparare la logica conseguenza.
Ma in fondo è solo pubblicità, sembra rispondere Hupton a chi le contesta un incoraggiare, pur se indirettamente (?), l’uso delle armi, quando sostiene che “non è tanto importante che la gente ritiri la pistola, quanto che l’iniziativa abbia attirato l’attenzione e che se ne parli”.
Questo rozzo tentativo di risollevare affari magari non troppo brillanti, cercando di conquistarsi le prime pagine dei giornali con qualsiasi mezzo, potrebbe essere destinato a non avere successo. Forse non per motivi etici, ma per ragioni squisitamente legate al marketing e alla comunicazione.
E’ un brutto accostamento quello tra la casa e la pistola. Che anziché richiamare alla mente pensieri di famiglia, intimità, calore umano, spingendo il cliente a comprare una casa per farne un centro di affetti, induce piuttosto idee di violenza, aggressione, forse morte. Da cui tenersi lontani, magari rivolgendosi a un’altra agenzia immobiliare.

domenica 10 dicembre 2006

Anoressia e abolizione della taglia 38: ridefinire la realtà per cambiarla  

La morte per anoressia di una nota modella brasiliana ha portato sulle prime pagine dei giornali il problema della grave malattia che, stando alle denunce dell’Aba, l’associazione disturbi alimentari, colpisce ogni anno ragazzine e bambine sempre più giovani (si parla di esordi a 8-9 anni).
Lungi dal fare notizia quando si tratta di anonime adolescenti, l’anoressia torna prepotentemente tra i topic del momento se coinvolge Ana Carolina Reston, involontaria e sfortunata testimonial di un problema che non comincia e non finisce con lei.
La proposta del ministro dello sport e delle politiche sociali Giovanna Melandri di abolire la taglia 38 per le modelle che partecipano alle sfilate, se da un lato non è originale (è stata lanciata in Spagna la scorsa estate per una sfilata a Madrid), ha un pregio, e non da poco.
Purtroppo non quello di sconfiggere l’anoressia, sulle cui cause specialisti di vario titolo discutono e studiano da tempo senza riuscire a raggiungere punti fermi.
Ma quello di liberare finalmente le donne da modelli estetici non solo molto difficili da imitare ma estremamente negativi, perché fanno coincidere la bellezza non con la buona salute e una corretta ed equilibrata alimentazione, bensì con stili di vita malsani.
A chi obbietta che non basta cancellare una taglia per eliminare il problema del dimagrimento eccessivo si può rispondere che l’iniziativa è destinata con il tempo a operare una ridefinizione dei canoni di bellezza, perché l’immagine appena più in carne delle modelle taglia 40 comincerà gradualmente a entrare nell’inconscio femminile e da lì a indurre le donne a compiere scelte diverse.
A scanso di equivoci, e per la tranquillità di tutte quelle che la 38 la portano già senza essere anoressiche, va detto che la proposta di limita alle modelle che, di solito alte non meno di 175 centimetri, non riescono a entrare in questa taglia a meno di non essere estremamente magre. Non riguarda invece gli abiti venduti nei negozi, dove le signore di piccola statura continueranno a trovare i vestiti adatti alla loro corporatura.

mercoledì 6 dicembre 2006

Handimatica: Comunicare ai disabili, comunicare la disabilità  

Era dedicata alla comunicazione la giornata conclusiva di Handimatica, la mostra-convegno biennale sulle tecnologie per le persone con disabilità, tenutasi a Bologna tra il 30 novembre e il 2 dicembre.
Nella sesta edizione dell’evento era possibile vedere applicazioni dell’informatica e della telematica atte a favorire la partecipazione delle persone disabili alla vita sociale e lavorativa. Una volta tanto tecnologie costruite in modo da semplificare la vita, anziché complicarla come spesso accade, perchè l’accessibilità, recita lo slogan della mostra, è una misura di civiltà, il metro di valutazione per stabilire se una società pone ostacoli oppure contribuisce a rimuoverli.
Tra le applicazioni in mostra, cellulari che aiutano a leggere e computer da usare puntando gli occhi anziché il mouse, o che permettono una navigazione facilitata su internet.
Organizzata dalla Regione Emilia-Romagna in collaborazione con Alma Mater Studiorum Università di Bologna, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, la mostra richiama a ogni edizione migliaia di visitatori (5300 nell’edizione precedente del 2004).

venerdì 1 dicembre 2006

Aibi: l’immagine è al servizio dei valori 

Unica tra le tante associazioni italiane che si occupano di adozioni a distanza e affidamento temporaneo a essersi schierata in favore della piccola Maria, l’Aibi, Amici dei bambini (www.aibi.it) ha portato avanti la propria battaglia sola contro tutti.
Ci riferiamo ovviamente al caso della bambina bielorussa in Italia per le vacanze estive, che la famiglia ospitante si rifiutava di riconsegnare alle autorità del suo paese, perché non dovesse tornare nell’orfanotrofio dove aveva subito terribili violenze.
Per bocca del suo presidente, Marco Griffini, l’Aibi aveva sostenuto con forza che la piccola doveva restare in Italia, dove aveva finalmente trovato una famiglia, diritto fondamentale di ogni bambino. In una trasmissione radio sul caso, Griffini aveva invitato l’ambasciatore bielorusso, senza tanti giri di parole, a mandare sua figlia all’orfanotrofio, se davvero ci si stava così bene.
Associazione Onlus tra le più attive e organizzate nel variegato panorama delle adozioni a distanza, con in piedi decine di progetti di sostegno in tutto il mondo, illustrati con grande dovizia di particolari nel proprio sito, vera miniera di informazioni sull’associazione, Aibi ha sempre dimostrato grande abilità nella cura della propria immagine e nella promozione delle proprie iniziative. Lo dimostrano campagne di comunicazione di grande effetto (qualcuno ricorderà quella intitolata “il figlio segreto di Maria Grazia Cucinotta”) e testimonial di primo piano quali Anna Oxa, Nancy Brilli, Eros Ramazzotti, Gianni Morandi, Antonella Clerici, Fabrizio Frizzi, Caterina Caselli, Bruno Pizzul e altri ancora. Si aggiungano le sponsorizzazioni di importanti aziende tra cui Chicco, Plasmon, Auchan, Danone, CartaSì, Microsoft, Fineco, Erg, S.Bernardo, Ina, Compagnia di S.Paolo.
Con l’impopolare presa di posizione per Maria, che le ha attirato contro gli strali di numerose associazioni omologhe, convinte che gli interessi della piccola bielorussa dovessero essere sacrificati a quelli della gran massa di bambini in attesa di venire in Italia, quasi che si trattasse di diritti contrapposti e non invece sullo stesso piano, Aibi non ha avuto paura di appannare la propria immagine ben costruita, ha rischiato, uscendone con una reputazione rafforzata.